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ALLA FINE DEL MONDO CAPITOLO N° 12

“Fuego libre!”, gridò la Polizia

El Bolson è una cittadina della provincia del Rio Negro celebre per il maestoso Piltriquitron, il monte che la domina con i suoi magnifici boschi ricoperti di cipressi e querce autoctone e per la Feria artesanal, la fiera artigianale regionale che ogni anno richiama nella centrale Plaza Pagano moltissime persone. Negli anni Sessanta gli hippies hanno dato vita qui ad una vasta e autosufficiente comunità.
Una eredità, quella dei “figli dei fiori”, ancora oggi florida in molti aspetti della vita di El Bolson: nei processi politici partecipativi per esempio, nell’attenzione all’ambiente, nella permacultura, nella valorizzazione dell’artigianato, nei tanti mercatini di strada, nell’arte, nelle radio libere, nei servizi agli anziani, nell’occupazione delle terre abbandonate.
Anche il giovane Santiago Andrés Maldonado, tatuatore, muralista, musicista e pacifista, viene da El Bolson. Per essere precisi è nato il 25 luglio 1989 nella città di Veinticinco de Mayo, a più di duecento chilometri a sud-ovest della capitale, dove, nel barrio obrero, vivono ancora oggi i genitori, Stella Maris Peloso ed Enrique Anibal, insieme con il fratello German. L’altro hermano, il primogenito Sergio, si è trasferito da tempo a San Carlos de Bariloche per gestire una piccola azienda che commercializza tea e infusi chiamata Wally’s tea. Nella andina El Bolson il giovane Santi – o “Lechu” o “Lechuga” (lattuga), come lo hanno soprannominato nel barrio veinticinqueno per via dei capelli lunghi e ondulati - è arrivato nell’aprile del 2017 per motivi professionali.
L’attività di tatuatore che svolge ormai da qualche anno, da quando ha lasciato gli studi di discipline plastiche alla Facoltà di Belle Arti dell’Università di La Plata⁹⁹, lo porta infatti spesso e volentieri al di qua e al di là della Cordigliera.
Gli amici argentini e cileni lo conoscono come un ragazzo semplice, umile, riservato; uno con grandi sogni: la pace, un mondo migliore, il rispetto dell’ambiente e degli individui. È vegetariano, ama lo skate, la musica, suona il basso e la chitarra. È uno che non ha il timore di mettersi al servizio degli altri: lo fa fin da quando è ragazzino. È militante e antimilitarista, anche se lui preferisce definirsi “anarchista”. Da anni si impegna per far conoscere e far rispettare i diritti di chi non ha voce, di chi soffre nell’indifferenza generale, come i pescatori dell’isola cilena di Chiloè, in pieno Oceano Pacifico, o i popoli originari messi in ginocchio dall’avidità capitalista, come accade ai Guaranì e ai Mapuche, la cui cultura Santi conosce e apprezza fin dall’adolescenza.
A loro ha dedicato anche otto murales nella sua Veinticinco de Mayo, in uno dei quali ha ritratto un ragazzino in azione sullo skate con l’emblema dell’anarchia tatuata in un braccio e, al di sotto dell’altro, il meli witranmapu, il simbolo Mapuche che rappresenta il cosmo diviso nei suoi quattro punti cardinali. A lato ha dipinto la scritta “Soul rebel” e, in alto, un cielo turchese pieno di nuvole che sovrasta una fabbrica, una chiesa e altri edifici.
È molto critico verso l’attuale sistema politico ed economico mondiale e non si riconosce in alcun partito; appena gli é possibile verga a mano, con la penna (non ama le e-mail), riflessioni e lettere che poi spedisce agli amici: gli stessi che, da quando ha cominciato a studiare i poteri curativi delle erbe e delle piante ancestrali, hanno cominciato a chiamarlo el brujo, lo stregone.
Il 30 luglio, di ritorno da un viaggio che da El Bolson lo ha portato in varie parti dell’America Latina, Santiago decide che è arrivato il momento di raggiungere, finalmente, un luogo che da tempo lo “sta chiamando a sé”: il Chubut, e in particolare il fazzoletto di terra recuperato nel 2015 dai Mapuche della giovane Pu Lof en Resistencia. Agli amici ha confessato la propria preoccupazione per le persecuzioni che quella gente sta subendo e anche per le condizioni di salute di Facundo Jones Huala, alle prese proprio in quei giorni con uno sciopero della fame in carcere. Sa che i Mapuche, non solo di questo piccolo collettivo e non solo argentini, sono da tempo impegnati in un processo di rivendicazione dei propri diritti: qualche comunità lo porta avanti dialogando con lo Stato, altre attraverso il recupero delle terre ancestrali. Sa che da quando l’Argentina é tornata a forme di Governo più democratiche, i diritti dei popoli nativi sono stati via via riconosciuti. Per questa ragione é irritato e spaventato da quanto stanno subendo.
Rientrato nella provincia di Rio Negro raggiunge Esquel gli ultimi giorni di luglio insieme a una delle donne della Pu Lof, Claudina Pilquiman, per partecipare alla manifestazione contro la detenzione del lonko promossa davanti alla Procura federale. La mattina del 31, però, qualcosa di strano accade a Cushamen e a Bariloche. Mentre con altri giovani Mapuche, tutti con il volto coperto, Santi sta bloccando con pali, pietre e alberi tagliati la Ruta 40 di fronte alla comunità, un gruppetto di gendarmi si apposta da qualche parte lungo la strada e fotografa i partecipanti, ne filma le azioni. Quasi in contemporanea, davanti al Tribunale di Bariloche è in corso un’altra protesta e, poco lontano da lì, uno degli uomini più influenti del ministero della Sicurezza, il capo di Gabinetto ed ex avvocato di militari genocidi, Pablo Noceti¹⁰⁰, sta mettendo a punto un piano fatale.
«C’è da bruciare tutte le case». La mattina del 1 agosto - il dia de Pachamama, o giorno di ringraziamento dei nativi andini alla Madre Terra - uno dei gendarmi sta ricordando a un collega che sta con lui sul camion, il lavoro sporco da fare alla Pu Lof en Resistencia. L’altro aggiunge: «C’è da spaccare tutto, la missione è questa». E così alle 11.15, dopo aver liberato la strada e fatto disperdere quel gruppetto di persone incappucciate che, a detta loro, lanciavano pietre con l’intento di colpirli¹⁰¹, le squadre 35 di El Bolson e 36 di Esquel, in tutto quarantacinque unità con un Unimog, due furgoni e senza alcuna autorizzazione del giudice¹⁰², fanno irruzione nell’area recuperata dopo aver spaccato la recinzione. Sparano¹⁰³, bruciano tutto quello che trovano nel loro cammino, lanciano pietre e impediscono l’accesso a chicchessia, compresi i referenti locali dell’Assemblea permanente per i Diritti umani, Julio Saquero e la moglie Mabel Sanchez.
Le radio comunitarie patagoniche si attivano immediatamente: raccolgono e diffondono le testimonianze in ta dei membri della Pu Lof en Resistencia, descrivono le lacrime di paura e di dolore delle donne e dei bambini davanti alle loro cose (e case) incendiate, raccontano le fiamme che divorano i materassi, le coperte, e i giocattoli, segnalano che la Ruta 40 è stata bloccata di nuovo, ma stavolta su iniziativa della Gendarmeria.
Al grido di «fuego libre!», in quel drammatico primo giorno di agosto i gendarmi proseguono la loro “missione” rincorrendo alcuni Mapuche che si stanno allontanando verso il vicino fiume. Devono eseguire l’ordine arrivato dall’alto. E perciò sparano. Li insultano. I Mapuche cercando di difendersi con delle pietre raccattate da terra. Un paio di gendarmi rimangono feriti. Santiago, che aveva lasciato lo zaino incustodito nella casilla de guardia, torna velocemente indietro per riprenderlo, ma i militari lo adocchiano e così anche lui diventa ambita preda di caccia.
Il brujo non conosce lo spazio della Lof, è la prima volta che si trova lì, e a quel punto non gli resta che seguire gli altri. Con il cuore in gola arriva all’ingresso di una fitta boscaglia, vi si addentra facendosi largo con le braccia. Ha paura, non ha idea di quello che può succedere, ma sa che non può fermarsi. E così, avanzando tra le sterpi, si ritrova davanti al fiume. In quel punto il livello dell’acqua è assai basso e non è difficile attraversarlo, tuttavia c’è un problema: Santi non sa nuotare. Sente quel che stanno facendo i gendarmi, più indietro: sono inferociti, e corrono, e sparano e gridano con tutto il fiato che hanno.
Poco distante da lui c’è un ragazzo Mapuche. È Lucas Pilquiman, ha 19 anni e vive nella Lof. Santiago lo segue nel fiume gonfio di pioggia, l’acqua è gelida; si sforza di camminare un po’ per raggiungere l’altro lato della riva ma fa molta, troppa fatica per via della troppa roba che indossa. Il freddo è come un urlo acuto che si infrange nel lungo inverno patagonico.
Con l’acqua ormai all’altezza delle ginocchia cerca allora di mettersi al passo con gli altri; vorrebbe attraversarlo quel maledetto fiume ingombro di vegetazione ma sente di non farcela: così torna indietro, verso la riva da cui è disperatamente partito mentre i companeros, ormai dall’altra parte, lo perdono di vista. In quegli stessi attimi, più in alto, sulla scarpata, gli agenti osservano quanto sta accadendo finché alcuni di loro decidono di scendere verso il rio e di catturare quella persona tornata a riva: è allora che i Mapuche sentono gridare: «Qui ne abbiamo uno», e subito dopo odono l’esplosione di un colpo di arma da fuoco. Sempre nascosti, notano l’Unimog scendere verso la sponda, e in mezzo al trambusto si accorgono di alcuni gendarmi che in fretta e furia aprono il portellone posteriore e introducono qualcosa di voluminoso. Non riescono però a vedere che cosa é: gli uomini in divisa verde oliva si sono messi in mezzo. Poi il camion riparte in direzione Esquel. «È Santiago. Lo stanno portando via», sospettano con inquietudine i Mapuche, sperando tuttavia di ritrovarlo più tardi alla casilla.

CONTINUA DOMANI......

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