Un’autopsia che non quadra
Quando mancano pochi giorni al primo anniversario della scomparsa del brujo, una nuova voce si alza per affermare, forte e chiaro, che “il corpo di Santiago non è stato in acqua per tutto quel tempo ma è stato messo lì in un secondo momento”. Questa volta non si tratta della voce di un Mapuche ma di un criminologo noto in Argentina per aver fondato un istituto privato per l’insegnamento della disciplina e per aver partecipato, come perito, a diverse inchieste scottanti: quella sulla morte del giudice Alberto Nisman, per esempio, o quello sul massacro del Rincon Bomba¹²⁷, anch’esso compiuto dalla Gendarmeria.
Proprio nei giorni in cui i Maldonado sono impegnati nell’organizzazione di una grande manifestazione per chiedere allo Stato, una volta ancora, verità e giustizia, Prueger interviene su “Pagina 12” per dichiarare che l’equipe che pochi mesi prima ha firmato l’autopsia ha commesso alcuni errori. Errori gravi, cruciali a suo dire, in grado di compromettere la veridicità del risultato. Il primo riguarderebbe il tempo di permanenza del corpo in acqua: non tra i cinquantatre e i settantatre giorni, come stabilito dall’equipe peritale, ma un tempo decisamente minore. A dimostrarlo sarebbe la presenza di uno specifico tipo di polline, appartenente alla vegetazione tipica dei boschi patagonici, ritrovato dalla biologa e pollinologa Leticia Povilauskas sui pantaloni in nylon di Santiago. Se il corpo, e dunque gli abiti, fossero rimasti sommersi per tutto quel tempo, il polline sarebbe stato portato via dall’acqua. “La dottoressa, componente anch’essa del pool di periti che ha eseguito l’autopsia alla Morgue Judicial di Buenos Aires, era arrivata a questa conclusione lo scorso novembre ma è stata ignorata consapevolmente nella relazione finale”, suggerisce Prueger, che al quotidiano di Buenos Aires rivela anche l’esito di un esperimento compiuto insieme con altri esperti nello stesso luogo in cui è stato ritrovato il cadavere del ragazzo. Una volta introdotto in acqua un chilo di carne, gli studiosi ne hanno osservato e documentato il deperimento, settimana dopo settimana: in quaranta giorni il pezzo, immerso nel fiume, è arrivato a ridursi della metà a causa dell’intervento dei pesci ma anche dei parassiti e degli animali saprofagi che si aggirano in quelle zone.
Il criminologo avanza perciò due ipotesi: che il giovane sia morto annegato e che il suo corpo sia stato nascosto altrove prima di essere gettato nel fiume allo scopo di essere ritrovato; che Santiago sia stato tenuto prigioniero da qualche parte, quindi portato in un secondo momento al fiume, dove “è stato annegato” e abbandonato. I periti, è la conclusione di Prueger e degli esperti che con lui hanno collaborato all’analisi dell’autopsia, avrebbero compiuto un errore fondamentale anche nell’esaminare la temperatura dell’acqua con l’intento di rapportarla con il periodo di permanenza del corpo: secondo il criminologo non hanno considerato il valore della temperatura media dell’acqua nel periodo in cui il cadavere è sparito e poi ricomparso ma hanno analizzato solo i valori più bassi, arrivando in questo modo a conclusioni che egli considera falsate.
Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, la famiglia Maldonado, fino a quel momento ignara dell’esperimento, decide di chiedere al giudice Lleral di poter sentire anche Prueger. Contemporaneamente una componente del pool che ha effettuato l’autopsia, il medico legale Silvia Bufalini, decide di rispondere alle accuse del criminologo e lo fa con un piccato tweet: “Le uniche ignorate consapevolmente sono state le speculazioni. Questo è il risultato di quattordici ore di lavoro multidisciplinari. Il resto è solo una ricerca di fama”.
E il gruppo Benetton? Com’è sua abitudine non ha mai interrotto il silenzio. Alla nostra richiesta di spiegarci che cosa sta accadendo in Patagonia con i Mapuche, ha risposto via mail con un trito comunicato stampa¹²⁸ in cui ricorda di aver offerto 7500 ettari di “terra di buona qualità da destinare alla popolazione autoctona” del Chubut: più o meno la stessa risposta che il capostipite Luciano - nel frattempo rientrato in azienda per “salvarla” dalla “gestione malavitosa” dei manager che i Benetton stessi hanno nominato¹²⁹ -, dà tempo dopo, durante un soleggiato pomeriggio di gennaio, ad un ragazzo seduto tra l’adorante pubblico di Fabrica. «Abbiamo regalato 7500 ettari ma i Mapuche non hanno accettato perché se avessero accettato sarebbe finita la storia dei Mapuche. Loro la vogliono libera, ma purtroppo quella terra ha un proprietario. Lo Stato è il più grande proprietario di terreni, e dovrebbero cominciare dallo Stato». In quell’occasione al suo fianco troneggiava l’amico e collaboratore ritrovato, il fotografo/direttore creativo Oliviero Toscani¹³⁰, il quale, alla domanda del ragazzo: «Ha qualcosa da dire alla madre di Maldonado?», è intervenuto spiegando, con la sua inconfondibile vis, che la famiglia Benetton non è responsabile della morte di Santiago, sebbene sia avvenuta nelle sue terre, acquistate peraltro in maniera legale. «Sennò», ha rimbalzato la domanda, «se non riconoscete questo come legale, che cos’è la legalità?».
Nel novembre del 2018 il caso Maldonado viene chiuso. La sentenza del giudice federale Gustavo Lleral mette una pietra tombale sul processo: scarta del tutto l’ipotesi di “sparizione forzata” ed assolve in primo grado il gendarme Emmanuel Echazù, unico imputato per la morte di Santiago.
Lo sconcerto dell’opinione pubblica è immediato. La famiglia Maldonado non ci sta. I loro legali ricorrono alla Corte d’Appello. Il 6 settembre 2019 viene emessa una seconda sentenza: si chiede che l’inchiesta venga approfondita, che vengano acquisite nuove prove in merito all’ipotesi del reato di “abbandono di persona”. L’assoluzione di Echazù, affermano i giudici, è stata “prematura”, non si è tenuto conto di tutte le testimonianze prodotte dall’accusa. La sentenza respinge però la richiesta, avanzata dalla parte civile, di proseguire l’indagine per la “sparizione forzata”. Veronica Heredia, avvocato dei Maldonado, non è pienamente soddisfatta dal pronunciamento della Corte d’Appello: è una sentenza “ingannevole” e “codarda”, dichiara a “Pagina 12”, perché la riapertura del caso “non dovrebbe escludere nessuna ipotesi di delitto”. È comunque un passo avanti nella direzione della verità.
Tre mesi dopo, la sentenza d’appello è confermata in Cassazione. Il caso di Santiago Maldonado è riaperto; la sentenza di assoluzione di Emmanuel Echazù è revocata; l’ipotesi di “sparizione forzata”, esclusa in via definitiva.
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Quando mancano pochi giorni al primo anniversario della scomparsa del brujo, una nuova voce si alza per affermare, forte e chiaro, che “il corpo di Santiago non è stato in acqua per tutto quel tempo ma è stato messo lì in un secondo momento”. Questa volta non si tratta della voce di un Mapuche ma di un criminologo noto in Argentina per aver fondato un istituto privato per l’insegnamento della disciplina e per aver partecipato, come perito, a diverse inchieste scottanti: quella sulla morte del giudice Alberto Nisman, per esempio, o quello sul massacro del Rincon Bomba¹²⁷, anch’esso compiuto dalla Gendarmeria.
Proprio nei giorni in cui i Maldonado sono impegnati nell’organizzazione di una grande manifestazione per chiedere allo Stato, una volta ancora, verità e giustizia, Prueger interviene su “Pagina 12” per dichiarare che l’equipe che pochi mesi prima ha firmato l’autopsia ha commesso alcuni errori. Errori gravi, cruciali a suo dire, in grado di compromettere la veridicità del risultato. Il primo riguarderebbe il tempo di permanenza del corpo in acqua: non tra i cinquantatre e i settantatre giorni, come stabilito dall’equipe peritale, ma un tempo decisamente minore. A dimostrarlo sarebbe la presenza di uno specifico tipo di polline, appartenente alla vegetazione tipica dei boschi patagonici, ritrovato dalla biologa e pollinologa Leticia Povilauskas sui pantaloni in nylon di Santiago. Se il corpo, e dunque gli abiti, fossero rimasti sommersi per tutto quel tempo, il polline sarebbe stato portato via dall’acqua. “La dottoressa, componente anch’essa del pool di periti che ha eseguito l’autopsia alla Morgue Judicial di Buenos Aires, era arrivata a questa conclusione lo scorso novembre ma è stata ignorata consapevolmente nella relazione finale”, suggerisce Prueger, che al quotidiano di Buenos Aires rivela anche l’esito di un esperimento compiuto insieme con altri esperti nello stesso luogo in cui è stato ritrovato il cadavere del ragazzo. Una volta introdotto in acqua un chilo di carne, gli studiosi ne hanno osservato e documentato il deperimento, settimana dopo settimana: in quaranta giorni il pezzo, immerso nel fiume, è arrivato a ridursi della metà a causa dell’intervento dei pesci ma anche dei parassiti e degli animali saprofagi che si aggirano in quelle zone.
Il criminologo avanza perciò due ipotesi: che il giovane sia morto annegato e che il suo corpo sia stato nascosto altrove prima di essere gettato nel fiume allo scopo di essere ritrovato; che Santiago sia stato tenuto prigioniero da qualche parte, quindi portato in un secondo momento al fiume, dove “è stato annegato” e abbandonato. I periti, è la conclusione di Prueger e degli esperti che con lui hanno collaborato all’analisi dell’autopsia, avrebbero compiuto un errore fondamentale anche nell’esaminare la temperatura dell’acqua con l’intento di rapportarla con il periodo di permanenza del corpo: secondo il criminologo non hanno considerato il valore della temperatura media dell’acqua nel periodo in cui il cadavere è sparito e poi ricomparso ma hanno analizzato solo i valori più bassi, arrivando in questo modo a conclusioni che egli considera falsate.
Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, la famiglia Maldonado, fino a quel momento ignara dell’esperimento, decide di chiedere al giudice Lleral di poter sentire anche Prueger. Contemporaneamente una componente del pool che ha effettuato l’autopsia, il medico legale Silvia Bufalini, decide di rispondere alle accuse del criminologo e lo fa con un piccato tweet: “Le uniche ignorate consapevolmente sono state le speculazioni. Questo è il risultato di quattordici ore di lavoro multidisciplinari. Il resto è solo una ricerca di fama”.
E il gruppo Benetton? Com’è sua abitudine non ha mai interrotto il silenzio. Alla nostra richiesta di spiegarci che cosa sta accadendo in Patagonia con i Mapuche, ha risposto via mail con un trito comunicato stampa¹²⁸ in cui ricorda di aver offerto 7500 ettari di “terra di buona qualità da destinare alla popolazione autoctona” del Chubut: più o meno la stessa risposta che il capostipite Luciano - nel frattempo rientrato in azienda per “salvarla” dalla “gestione malavitosa” dei manager che i Benetton stessi hanno nominato¹²⁹ -, dà tempo dopo, durante un soleggiato pomeriggio di gennaio, ad un ragazzo seduto tra l’adorante pubblico di Fabrica. «Abbiamo regalato 7500 ettari ma i Mapuche non hanno accettato perché se avessero accettato sarebbe finita la storia dei Mapuche. Loro la vogliono libera, ma purtroppo quella terra ha un proprietario. Lo Stato è il più grande proprietario di terreni, e dovrebbero cominciare dallo Stato». In quell’occasione al suo fianco troneggiava l’amico e collaboratore ritrovato, il fotografo/direttore creativo Oliviero Toscani¹³⁰, il quale, alla domanda del ragazzo: «Ha qualcosa da dire alla madre di Maldonado?», è intervenuto spiegando, con la sua inconfondibile vis, che la famiglia Benetton non è responsabile della morte di Santiago, sebbene sia avvenuta nelle sue terre, acquistate peraltro in maniera legale. «Sennò», ha rimbalzato la domanda, «se non riconoscete questo come legale, che cos’è la legalità?».
Nel novembre del 2018 il caso Maldonado viene chiuso. La sentenza del giudice federale Gustavo Lleral mette una pietra tombale sul processo: scarta del tutto l’ipotesi di “sparizione forzata” ed assolve in primo grado il gendarme Emmanuel Echazù, unico imputato per la morte di Santiago.
Lo sconcerto dell’opinione pubblica è immediato. La famiglia Maldonado non ci sta. I loro legali ricorrono alla Corte d’Appello. Il 6 settembre 2019 viene emessa una seconda sentenza: si chiede che l’inchiesta venga approfondita, che vengano acquisite nuove prove in merito all’ipotesi del reato di “abbandono di persona”. L’assoluzione di Echazù, affermano i giudici, è stata “prematura”, non si è tenuto conto di tutte le testimonianze prodotte dall’accusa. La sentenza respinge però la richiesta, avanzata dalla parte civile, di proseguire l’indagine per la “sparizione forzata”. Veronica Heredia, avvocato dei Maldonado, non è pienamente soddisfatta dal pronunciamento della Corte d’Appello: è una sentenza “ingannevole” e “codarda”, dichiara a “Pagina 12”, perché la riapertura del caso “non dovrebbe escludere nessuna ipotesi di delitto”. È comunque un passo avanti nella direzione della verità.
Tre mesi dopo, la sentenza d’appello è confermata in Cassazione. Il caso di Santiago Maldonado è riaperto; la sentenza di assoluzione di Emmanuel Echazù è revocata; l’ipotesi di “sparizione forzata”, esclusa in via definitiva.
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