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ALLA FINE DEL MONDO CAPITOLO N° 17

Si chiama “Imago Mundi” si legge...

Mentre il Gruppo ha continuato a macinare miliardi diventando persino un caso di business innovativo da studiare all’università, Luciano Benetton, tra una laurea ad honorem e l’altra¹⁴³, ha trovato il tempo di ideare un progetto tutto nuovo grazie al quale, attraverso l’arte, compilare una sorta di mappa delle diversità culturali del pianeta all’inizio del nuovo millennio.
“Imago Mundi”, questo il nome scelto, lo ha fondato nel 2008 - proprio l’anno in cui ha lasciato il timone della sua azienda in mano al figlio Alessandro e a un plotone di manager, convinto di non tornarci più - e lo sta realizzando grazie alla Fondazione Benetton Studi e Ricerche di cui è presidente.

Il meccanismo di “Imago Mundi” è molto semplice: ad ogni artista che intende partecipare gratuitamente al progetto viene fornita una tela di 10x12 centimetri sulla quale può raccontare se stesso oppure il Paese e la cultura a cui appartiene o le problematiche che lo interessano. Queste piccole e curiose tessere colorate – ad oggi quasi 30 mila – una volta inserite in una struttura realizzata dall’amico architetto Tobia Scarpa¹⁴⁴, compongono un gigantesco mosaico che viene trasportato sveltamente in giro per il mondo ed esposto in musei e sale prestigiose. Lo scopo di tutta l’operazione è assai ambizioso: «Valorizzare le diversità, nella convinzione che siano le differenze ad impreziosire il mondo” e che l’arte sia una sorta di collante “tra culture ed etnie differenti, che possono convivere pacificamente in uno stesso territorio».¹⁴⁵
L’immagine del mondo che Luciano Benetton sta creando ed esponendo attraverso le variopinte “formelle” sembra essere quella di un fitto reticolato di culture e di popoli che si intrecciano, si contaminano, si modificano e crescono insieme, differenti ma non diseguali, in linea con quei concetti antropologici, sociologici e filosofici dell’interculturalità.
Un progetto anche lodevole, non c’è dubbio, ma che fin dal principio ha suscitato parecchie perplessità. La prima impressione è che questa, come molte delle iniziative lanciate negli anni dal Gruppo veneto, non sia niente più che un’attenta e calibrata operazione di marketing. Il mondo aperto, senza confini, che il “neo-filantropo e mecenate” Luciano Benetton vuole proporre, dove le diverse identità che lo popolano parlano ed interagiscono tra loro, appare invece, nella realtà, l’ennesima rappresentazione della propria immagine al mondo e nel mondo. Tutto ciò, d’altro canto, è pienamente coerente con la narrazione “di sé” scelta fin dagli anni Ottanta e concretizzata con l’aiuto dell’amico (di Luciano) Oliviero Toscani: un’azienda sensibile ai grandi temi sociali ma anche alle piccole storie dei dimenticati, attenta ai diritti degli ultimi, che si muove quasi senza sporcare, senza fare del male a nessuno restituendo, anzi, bellezza e valore.
È un refrain che ormai convince sempre meno, e probabilmente neppure il ritorno in pompa magna di Toscani nella squadra di Fabrica ha la forza necessaria per riattivarne l’antico potere persuasivo: e ciò al di là delle belle parole, delle iniziative umanitarie e dei codici di condotta. Insomma, oltre le tante luci e i tanti lustrini colorati, l’immagine di Benetton e del suo mondo imprenditoriale è quella – molto più banale - di un’azienda che deve fare profitto al di là di tutto e nonostante tutto. “La corporation”, ha ben spiegato Joel Bakan, professore di Diritto alla University of British Columbia di Vancouver, “non può riconoscere né agire secondo principi etici che le inibiscano di nuocere agli altri. La sua natura giuridica non fissa alcun limite a quello che può fare agli altri nel perseguimento dei suoi scopi egoistici; di fatto, laddove i benefici superano i costi, la corporation è perfino obbligata ad arrecare danni”.¹⁴⁶
In questo senso “l’Argentina dei Benetton” rimanda al mondo – o, meglio, a chi lo vuole vedere - un’immagine del Gruppo veneto molto meno variopinta dei preziosi “mosaici culturali” commissionati dal signor Luciano. Nel mondo reale, nella vera Argentina per esempio, le diversità rimangono tali e molto spesso arrivano ad evolversi in aspre diseguaglianze, in situazioni dominate dall’impianto verticista del colonialismo classico. Anche i nuovi conquistatori sfruttano, discriminano, assoggettano, reprimono criminalizzano i popoli originari, ai loro occhi “colpevoli” di opporsi o di presentarsi come proposta alternativa all’economia liberista e alla concezione di vita insostenibile che essa presuppone.
I Mapuche, che da secoli abitano la Patagonia argentina e cilena, rappresentano proprio una di queste alternative. Ne è pienamente convinta Moira Millàn, referente della comunità Pillàn Mahuiza¹⁴⁷, quando afferma: «Il popolo Mapuche sta affrontando la sfida di poter ripensare la nostra civiltà e la sua crisi», mantenendo viva «la speranza di un mondo diverso che contempli un buen vivir come diritto di tutti», la creazione di una «società dove poterci rispettare l’un l’altro»¹⁴⁸ e dove instaurare e praticare una diversa e più intima relazione con la terra e la natura; una società che abbia a che fare con la dimensione spirituale e non con l’obbedienza al capitale richiesta dalla logica neoliberista.
Eppure riconoscersi Mapuche è una scelta tutt’altro che semplice: «La vita che ne consegue è precaria, sempre in allerta perché i controlli della polizia sono costantemente dietro l’angolo. […]. C’è molta gente che è rimasta senza lavoro per aver appoggiato la lotta Mapuche», ha ricordato in un recente reportage su “Global project” il giornalista Riccardo Bottazzo.¹⁴⁹
La notte di Natale dell’anno scorso l’ “alternativa” Mapuche è ricomparsa nei territori di Benetton. Un gruppo di nativi della comunità Lof Kuranche (che in lingua dungun significa “gente della pietra”) ha recuperato una porzione di terra dell’estancia El Maitén, nella zona di El Platero. «Abbiamo recuperato ciò che ci è stato rubato », hanno spiegato. Il gruppo di Treviso li denuncia immediatamente per “usurpazione” e tace. Il copione si ripete. La resistenza Mapuche continua

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