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SENZA GIRO D'ITALIA PRIMA TAPPA

I CORRIDORI DEL SENZAGIRO

Quando Italo Svevo salì sul treno per tornarsene a Trieste, guardò per l’ultima volta quella parte orientale dell’Impero che l’aveva accolto per qualche mese. Non si sentì particolarmente dispiaciuto nel lasciarla. Appuntò nel suo taccuino solo tre parole: Budapest sa attendere. Non aggiunse altro. D’altra parte, quando vogliono, i triestini sanno essere essenziali, quasi ermetici.
La cosa strana è che pure Ferenc Molnár, mentre ripensava alla sua città nell’appartamento d’esilio di New York, arrivò alla stessa conclusione: Budapest sa attendere. In questo caso il contesto c’è, riguarda l’occupazione nazista della capitale ungherese. Tutto è insomma molto più chiaro.
Tom Dumoulin probabilmente non ha mai letto né Svevo né Molnár, o se anche gli ha letti, se ne è fregato altamente di Svevo e Molnár, come è giusto che sia. L’olandese muove le mani freneticamente, ha in corpo la frenesia di chi non sa attendere, tanto meno a Budapest, tanto meno alla vigilia del Giro d’Italia. È magro e abbronzato, ha gli occhi sorpresi di chi non ci doveva essere, e lo sguardo soddisfatto di chi con la sua comparsa ha scompaginato piani e programmi altrui. E già che c’è, che è in ballo sente dentro la smania di vedere che effetto che fa presenziare lì dove non era atteso.
Solo quattro giorni fa una banale caduta in allenamento di uno dei suoi corridori aveva scompaginato i piani del Team Jumbo-Visma. Per questo avevano annunciato che ci sarebbe stata una sorpresa. Nessuno però immaginava la sorpresa. Nessun tweet, nessun post, solo un appuntamento a Budapest. E il pacco regalo per il Giro si è materializzato dietro un sorriso enorme e un ampio saluto con la mano. Il direttore sportivo della formazione olandese si è limitato a dire: “Aveva la gamba buona, si sentiva così bene che quando si è liberato un posto, ha detto ‘io ci sono’. Speriamo che possa replicare quanto successo ad Alberto Contador”.
Il primo a incrociare Tom Dumoulin è stato l’altro inatteso: Chris Froome. Perché pure il keniano d’Inghilterra ha deciso all’ultimo di prendere il via a questo Giro d’Italia. Lo spirito però è meno esuberante e soprattutto le mani sono tenute ben avanti per proteggersi bene da qualsiasi ambizione altrui: “Sono qui per dare una mano a Richard, spero di poter contribuire alla causa della squadra e di mettere chilometri in vista del Tour”. Froome sembra sincero, poi chissà.
Gli ultimi due (auto)invitati al ballo si siedono affianco agli altri ospiti prestigiosi, pronti a sfruttare l’occasione buona per imporre la loro danza.
Richard Carapaz proverà a riproporre la sua marimba, quella che spiazzò tutti l’anno scorso, che si impose all’inizio per mal calcoli altrui, salvo poi trovare legittima giustificazione per meriti propri. Ritmi sudamericani, diverse melodie. Miguel Ángel López c’ha una cumbia da esibire, da far vedere, da rendere finalmente duratura e non estemporanea come certa musica da spiaggia. Non c’è maglia bianca quest’anno a poter consolare, l’obbiettivo è rosa e verticale, dolomitico e alpino. La gigue di Remco Evenepoel è invece pronta ad essere scoperta. Ambisce a imporsi come dittatura musicale prolungata, ma vanno ancora raffinati i passi, trovato il ritmo giusto dei movimenti. Per il Ganassa sembra tutto un gioco, le corse una continuazione naturale di se stesso. Il problema è che c’è gente che non ha troppa voglia di ballare alle sue condizioni e alla prima occasione sarà pronto a dimostrarglielo. Come per esempio Romain Bardet che il suo bourrée è da un po’, forse troppo, che lo vorrebbe far diventare un bene comune, ma che ogni tanto si dimentica di renderlo accessibile anche agli altri, se non in sporadiche quanto ammaglianti rappresentazioni ad alta quota. Spettacoli singoli, opere uniche non replicabili. Il fascino dell’effimero. E allora un bell’amen alla classifica, che mica è quella che fa un corridore. Anche Simon Yates non ha molta voglia di farsi dettare i passi. Vorrebbe lui dettare il ritmo, imporre il suo rock&roll acrobatico al resto del gruppo. Due anni fa c’era quasi riuscito, poi però si ritrovò col fiato corto proprio quando gli altri tiravano fuori le loro scorte. L’errore l’ha capito, le contromosse le ha prese, l’armonia dei suoi movimenti però un po’ ne ha risentito. E questo tutto a sfavore della garibalderia. In coppia invece proveranno a ballare Vincenzo Nibali e Giulio Ciccone. Un valzerone di Castellina-Pasi, paesano al punto giusto da poter essere irresistibile. E il Giro è una grande sagra che a volte balla ciò che gli va, senza seguire troppo le partiture.
Di partiture non ne hanno bisogno gli avventurosi. E di gente di spirito e volontà ce ne sono parecchi tra le file dei girini. Tutta gente che ha capito che nulla c’è di più bello del rischio d’impresa, della vita (mai) grama della lepre. Perché tra un fucile e l’incertezza di un’evasione è sempre meglio scegliere la seconda, anche a rischio della propria pellaccia.
Di partiture non hanno bisogno neppure i velocisti. Perché in volate sovraffollate di troppi galli dalla grande cresta, da Pascal Ackerman a Elia Viviani, da Caleb Ewan a Giacomo Nizzolo, da Fabio Jakobsen a Dylan Groenewegen, da Arnaud Démare a Cees Bol, gli spazi sanno congestionati come in una discoteca di grido. Quella nella quale proverà a muoversi al meglio Peter Sagan, uno che nella scomodità trova una dimensione d’elezione. Sarà un ballo costipato, una techno con più alti che bassi, ma con un bel rullante a tenere il tempo, quello giusto per muoversi a tempo.
E il tempo giusto è quello che inizierà domani, anche se sarà cadenzato e dilatato. Tre, due, uno, via, uno dopo l’altro, uno a distanza di un minuto dall’altro. Ottimilaseicento metri lungo i quali far girare le gambe il più forte possibile. Nella speranza che sia più veloce di tutti gli altri. O almeno non troppo lento.



Ventitré centesimi

Budapest, 9 maggio 2020
Budapest, 9 maggio 2020
dal nostro inviato Marco Pastonesi
illustrazione di Federico Tram Tramonte
Ventitré centesimi di secondo. Niente. Eppure è la differenza che c’è tra ricordare e rimpiangere, celebrare e maledire, festeggiare e spiegare, entrare nella storia e uscire dalla geografia, insomma tra vincere e perdere. Perché sarà anche vero che nel ciclismo uno solo vince ma nessuno perde, ma è ancora più vero che quando si accarezza la vittoria per ventitré centesimi di secondo – diciamo la verità: neanche un battito di ciglia – quella la si vive come una sconfitta, perfino insopportabile.
Stavolta Vincenzo Nibali ha festeggiato e Tom Dumoulin ha spiegato. Gli 8 km e 600 m nel cuore di Pest e poi in quello di Buda sono stati elettrocardiaci, non nel senso dei watt dei motorini, ma in quello delle scariche di emozioni. 
La cronometro è sempre un esame di maturità di quelli di una volta, quando si portavano tutti i programmi di tutte le materie di tutti i cinque anni fra ginnasio e liceo, compresi latino e, per il classico, anche greco. Roba da perdere il sonno prima e subirne gli incubi dopo. Organizzazione, preparazione, ricognizione, tensione, pressione. Meno cinque, quattro, tre, due, uno. Poi da soli con se stessi e contro se stessi, e anche contro tutti gli altri. E in quell’apnea ipnotica non si vede la partenza da piazza degli Eroi, non si ammira il passaggio sul ponte delle Catene, non si sfiorano i bagni Széchenyi, non si scopre il distretto del Castello, non si ricorda se 102 edizioni fa il pronti-via fu dato alle 2.53 di notte (o di mattino: quella è un’ora di nessuno) per una tappa di 397 chilometri e la vittoria sorrise a un corridore romano (Dario Beni) che quattro giorni prima era a Roma e si recò alla partenza a Milano in bici, tra Cassia ed Emilia, scaldando – diciamo così – la gamba. Più che altro: in una cronometro così non si pensa. Perché i pensieri frenano.
Nibali, dunque. Forse non lo avrebbe detto neppure lui. Asciutto, tirato, rodato. Occhi neri e profondi, profonde anche le rughe come solchi, e la barba di un giorno. Un corsaro saraceno. A trentacinque anni e mezzo, sa che ogni lasciata è persa, sa che non può fare prigionieri, sa che o la va o la va, perché qualche spacca l’ha già collezionato. Ha stupito la sua partenza non da uomo finale, capitano, della sua squadra, ma a metà dei 176, comprimario, che scattavano ai piedi del monumento del Millenario. È stata la sua fortuna, di più, la sua felicità: solo così è riuscito ad anticipare quelle quattro gocce di pioggia, poche ma cariche, poche ma gonfie, poche ma fatali, che hanno alleggerito le pedalate dei suoi concorrenti. 
«Me ne aveva parlato Mimmo – ha rivelato Vincenzo, e Mimmo è il suo vecchio luogotenente, e da sempre amico, Domenico Pozzovivo -. Sapete com’è lui, un fanatico della meteorologia. Quando gli ho chiesto le previsioni, mi ha consigliato di partire prima degli altri per evitare un probabile rovescio». Infatti: Nibali ha corso sull’asciutto, che equivale a un diritto. E se a Budapest lo Squalo – si è squali anche a secco – ha incassato, altrove aveva dovuto lasciare: a Firenze, ai Mondiali del 2013, e a Rio, alle Olimpiadi del 2016, scivolando sull’asfalto e scomparendo dalla storia. Conoscendoli, Nibali e Dumoulin sapranno «confrontarsi – per dirla con Kipling – con Trionfo e Rovina e trattare allo stesso modo questi due impostori». E a proposito di Pozzovivo. Oltre alla profezia sul tempo (meteo), ha azzeccato anche la profezia sul suo tempo (crono): tre secondi a chilometro totale venticinque, e 30° posto.
Primo anche lui, ma cominciando dal fondo della classifica, un altro italiano: Mirco Maestri. Lo chiamano Paperino, perché – parole sue – «da giovane ero un po’ sfigatello». Lo è stato anche stavolta, che di anni ne ha più di ventotto. Causa sorteggio, ha corso senza ammiraglia, ma assistito solo da un cambio ruota. Quando ha forato, la prima ruota tirata giù non era quella giusta, il guaio è che non lo era neanche la seconda, lì Mirco deve aver pensato che il dio del ciclismo fosse andato a prendersi un caffè, meno male che la terza ruota si adattava bene, meno bene il tempo finale, un minuto e mezzo da Nibali. Amen. Lui non ci tiene né alla maglia (virtuosa) rosa né a quella (virtuale) nera, ma a quella arancione di primo nella classifica delle fughe. Un anno fa collezionò 650 chilometri all’aria, al vento, davanti, davanti a tutti. «Voglio entrare, se non nell’albo d’oro, almeno in quello dei ricordi». Viva le fughe, verrebbe da sottoscrivere e sovrapporre, anche se gli è capitato di arrivare in fondo – paradossale: le fughe che arrivano in fondo sono quelle che classificano in testa – due volte, nel 2018 a Rodi e nel 2019 in Cina. Come non eleggere Maestri, di cognome e di fatto, tra i preferiti?
I ventitré centesimi di vantaggio di Nibali (anche i novanta secondi di ritardo di Maestri) sono tutto in un giorno che può valere addirittura una vita, ma sono niente in tre settimane con 45.000 m di dislivello e, il penultimo giorno, arrampicandosi su quattro guglie di una cattedrale gotica del ciclismo tra Francia e Italia. I più accreditati sono addebitati di pochi secondi, sgranati ma attaccati come in un rosario. Intanto, seconda tappa: via dai favoriti, largo ai velocisti.

Le Classifiche di tappa

Ordine d’arrivo tappa 1


/us
PosizioneCorridoreTempo
1Vincenzo Nibali
2Tom Dumoulinst
3Victor Campenaerts+02”
4Søren Kragh Andersen+05”
5Remco Evenepoel+06”
6Thomas De Gendt+11”
7Rohan Dennis+11”
8Wilco Kelderman+13”
9Alex Dowsett+15”
10Chris Froome+16”

Classifica generale

1Vincenzo Nibali 
2Tom Dumoulinst
3Victor Campenaerts02"
4Søren Kragh Andersen05"
5Remco Evenepoel06"
6Thomas De Gendt11"
7Rohan Dennis11"
8Wilco Kelderman13"
9Alex Dowsett15"
10Chris Froome16"
Simon Yates21"
Damiano Caruso25"
Richard Carapaz28"
Davide Formolo29"
Giulio Ciccone33"
Jakob Fuglsang36"
Tejay Van Garderen37"
Romain Bardet38"
Il'nur Zakarin44"
Miguel Ángel López51"

Maglie

Maglia CiclaminoVincenzo Nibali
Maglia AzzurraTom Dumoulin
Maglia BiancaRemco Evenepoel
er

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